IL GENIO E LA FOLLIA DI DINO CAMPANA A SPAZIO UNOTRE
Si è concluso venerdì 22 giugno con la discussione sul romanzo “La notte della cometa” – di Sebastiano Vassalli – il ciclo di appuntamenti letterari organizzato da Giacomo Leronni presso l’incantevole cornice di Spazio UnoTre, ospite ineccepibile Mario Pugliese.
Ai pareri espressi sull’opera da Sergio D’Onghia, Piera De Giorgi e Cataldo Donvito, oltre che dai presenti intervenuti, si sono alternati gradevolissimi spazi musicali, con brani eseguiti da Titti Dell’Orco e Nadia Masini. La musica, non un mero riempitivo ma co-protagonista della serata, ha accolto i presenti per guidarli alla scoperta del senso più profondo dello scritto di Vassalli, salutandoli infine festosamente ad incontro concluso.
“La notte della cometa” è una biografia che strizza l’occhio al romanzo letterario, in cui l’autore ripercorre meticolosamente la tormentata vita del poeta tosco-romagnolo Dino Campana. Ben quattordici gli anni dedicati da Vassalli alle ricerche sul “mostro” Campana, spesso scontratosi con il provincialismo del paese d’origine – Marradi – dominato da vedute troppo anguste per comprendere e accettare la sua diversità.
Ma è esatto parlare di “diversità”? Quale confine bisogna varcare per muoversi verso il territorio dell’anomalia, dell’irrazionalità e, quindi, della follia? E, soprattutto, questo confine esiste davvero? Questo interrogativo è il leitmotiv dello scritto di Vassalli.
Sergio D’Onghia, invitato ad intervenire dopo l’introduzione di Leronni, si sofferma su quel particolare tipo di sofferenza di cui son stati vittime artisti e poeti d’ogni tempo, da Leopardi, a Campana, fino alla Merini, solo per citarne alcuni, accomunati da patologie fisiche e/o psichiche che li hanno resi, agli occhi altrui, diversi, folli e, qualche volta, emarginati. Incompresi.
Trabocca dai loro scritti, secondo D’Onghia, una fame d’affetto che è al contempo causa e conseguenza della loro alienazione. Desiderio d’amore che Campana ha tentato di appagare intraprendendo un’intensa relazione con la scrittrice Sibilla Aleramo. La passionalità a tratti violenta del loro rapporto è stata raccontata da Michele Placido nel film “Un viaggio chiamato amore” (2002). Ma il viaggio, per Campana, non è solo figurativo.
Rifiutato dal suo paese e dai suoi stessi cari, costantemente ammaliato da nuove mete, ha vagato spesso alla ricerca di un luogo in cui poter vivere in armonia con se stesso e con la società. Fughe vane, a cui sono seguiti diversi ricoveri in manicomio con diagnosi di gravi disturbi nervosi.
Sull’allontanamento di Campana da Marradi si sofferma la prof.ssa De Giorgi, che denuncia la brutalità di chi non ha riconosciuto la sensibilità del poeta, calpestandone la dignità e facendo di lui un “esiliato in casa sua”. Asserisce inoltre di aver vissuto emotivamente, tramite la scrittura di Vassalli, l’ingiustizia e l’oscurità della vita in manicomio. All’autore, il neo-assessore alla cultura attribuisce il merito di aver restituito a Campana la dignità brutalmente toltagli dalla famiglia.
Cataldo Donvito esprime invece la sua perplessità sull’intento di Vassalli di smentire la follia del poeta. Individua infatti una contraddizione nel sostenere la sanità mentale di un individuo di cui, specularmente, si tratteggiano un’infanzia e un’adolescenza in cui si rintracciano facilmente le giustificazioni della sua patologia: la derisione per le sue stranezze, l’eccessivo rigore della madre, il rifiuto da parte dei cari. Tutti motivi che avrebbero contribuito allo sviluppo del “male oscuro”, la follia. Ma forse, ipotizza Donvito, “la sua unica pazzia è stata quella di voler essere, sempre e solo, un poeta”.
Lo stesso Leronni sottolinea l’evidente tentazione cui ha talvolta ceduto Vassalli nel lasciarsi andare, da bravo romanziere, a una ricostruzione dei fatti a tratti fantasiosa. D’altronde, lo stesso autore sottolinea che “se anche Dino non fosse esistito, io ugualmente avrei scritto questa storia e avrei inventato quest’uomo metà meraviglioso e metà mostro”, tradendo la sua propensione alla creatività, fermo restando, tuttavia, la meticolosità a tratti maniacale nel lavoro di ricerca e ricostruzione della vita del poeta, cui pare legato affettivamente.
Assente giustificata la prof.ssa Dina Montebello, che si è premurata di far pervenire il suo parere sul libro a Giacomo Leronni, tenendo a evidenziare la necessità di stimolare la crescita culturale degli individui, perché imparino ad accettare il “diverso” e a non etichettarlo come “matto”, marchio che spesso ci si porta dietro a vita, divenendo fonte di frustrazione e angoscia. Una lettura interessante, che ripropone tramite un’accurata biografia il tema, sempre aperto a nuove analisi, dell’affascinante connubio tra genio e follia.