MOSTRA LIDIA STASI. BEL VIAGGIO “A RITROSO NEL TEMPO”-foto
Un antologico, malinconico avvolgersi danzando “A ritroso nel tempo”, per riscoprirsi in grado di sognare e progettare, innovare e provocare, riciclare e poetizzare emozioni, senza recidere le sartie che le imbrigliano ad un presente ancorato al passato, questo traspare dalle opere di Lidia Stasi, in mostra fino a stasera – 11 giugno – nell’atrio della biblioteca comunale.
La bruma della malinconia offusca l’orizzonte, stempera gioia e speranze nel grigiore della quotidianità. Tra nubi di incertezza un raggio di sole si insinua, attraversa lacrime di pioggia e disegna arcobaleni.
L’ispirazione dissolve l’inquietudine dandole forma e colore per poi lasciare spazi infiniti da colmare con altre visioni d’arte.
Ne è icona “Incastrato”, opera “a tutto tondo” incorniciata di bambù con mani-guanto scolpite con colla e gesso per tenere fermo il sestante tra i marosi di una rinascita graffiata da rocce, ostacolata da retro pensieri, soffocata da pietrificate e stratificate inquietudini, zavorrata dal macigno dei ricordi, eppur assetata di vita, di luce, di amore.
Nello sguardo, nella nuda tensione muscolare di una umanità che non si arrende all’assenza di tenerezza e tenta di rinascere, la negazione dello stereotipo di sentimenti ingessati in tiepidi affetti, vestiti di sterile perbenismo.
I muscoli guizzano, lo sguardo lampeggia tra colori e geometrie anch’esse “incastrate” nello sfondo scolpito ad arte in cartapesta.
Retaggio di un passato mai rinnegato, le illusioni, vetrificate in pixel di nostalgica ipocondria, velano ed opacizzano la gioia di vivere che pulsa e respira attraverso i dipinti.
Ammiccanti e allusive si vestono di satira nelle allegorie di audaci rivisitazioni di modern riclart.
Ed ecco accendersi lampade-manichino create da Lidia, tatuate da Deborah Angelillo e “strutturate” nelle loro architetture da Afra Benedetto.
L’effetto è di agghiacciante, raffinata bellezza. Dona brividi la scritta rosso sangue “Sfiora l’ombra… nel mio essere luce” a tergo del manichino cinese, metafora di rifiuto e abbandono.
Allegoria di femminilità ferita, amputata, gettata accanto a un cassonetto che torna a vivere d’Arte per l’Arte in una bionica, luminosa resurrezione.
Una donna-manichino che rinnega la sua bellezza scegliendo di essere “altro” e suo malgrado la esalta.
Lo conferma l’inquietante trucco sciolto su metà volto. Un fiume di nero inchiostro irrompe e interrompe la levigata, eterea bellezza della pelle plastificata, scivola lungo il collo, disegna tatuaggi di elettricità per poi prendere consistenza ed afferrare con forza la fragile spalla cui hanno strappato le ali…
Lacrime, anch’esse vetrificate dall’eternità, congelano il dolore a stento serrato tra le labbra. Il “trucco” di Deborah Angelillo abbozza un sorriso artefatto, esagerato, rievoca un triste “Pierrot” condannato ad immota, perfetta, inanimata bellezza.
La bilancia-lampada manda strali di luce dal rame bucherellato, il bimbo-manichino, spogliato della sua infanzia, riluce di innocenza, le sedie indossano originali colori e nuova vita, lo specchio decorato con smalto e geometrie di bottoni, assume connotati umani nei quali rispecchiarsi. Ed ancora nudi, volti assonnati, inverni di candore, capelli al vento, disegni appesi in verticali e silenziosi scacciapensieri, ma quel che più racconta l’artista, il suo spirito, è il camice, lo stesso che indossa per creare le sue opere: metafora di vita stropicciata, macchiato “ad arte”, abbandonato con nonchalance sulla sedia, quasi fosse lì per caso e non per scelta.
Conserva il profumo dei suoi pensieri, il calore della pelle, le pieghe della sua anima, l’illusione di un sogno disatteso da una disarmante realtà.
Le parole di Ketty, Tiziana, Umberto e altri amici, colme di forza e speranza, accarezzano, incoraggiano, coccolano, esortano, suggeriscono… interrompono silenzi rubando un sorriso, infondendo fiducia e calore… Non si è mai davvero soli quando, osservando il mondo, si scopre con stupore di poterne cambiare il volto ed emozionare, progettando Arte.
Scatti fotografici a cura di Mario Di Giuseppe.