MARIACHIARA LOBEFARO CRITICA ‘COGAN’ E ‘SAVAGES’
Cogan – Killing them softly è il nuovo film di Andrew Dominik, dopo L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford. Quel film, che valse la Coppa Volpi 2007 a Brad Pitt, attirò il plauso della critica ma anche accuse di prolissità (a cominciare dal titolo, tra i più lunghi della storia del cinema), nonché di scarsa padronanza del linguaggio western.
Come il precedente, Cogan è tratto da un romanzo; come il precedente, si fregia dell’interpretazione del (occorre dirlo?) molto bravo Pitt. Eppure – ed era un pericolo facile – il suo divismo non ammorba l’onestà di una pellicola che riesce nell’impresa di allegorizzare la criminalità, ed a farlo in modo disinvolto. L’analisi del setting risulta pertanto una chiave di lettura necessaria alla comprensione del film, in cui New Orleans, città dal passato glorioso prostrata dall’uragano Katrina, rappresenta tutt’altro che velatamente il fallimento dell’american way of life.
Ma Dominik non si limita ai riferimenti, esili o meno che siano: in un lento ma inarrestabile crescendo mette alla berlina lo stesso sogno americano, rivelandone senza pietà ipocrisie ed illusioni. Cogan è pertanto solo in apparenza un gangster movie: nella sostanza risulta piuttosto la disamina di un Paese, gli Stati Uniti, la cui logica è per molti versi apparentabile a quella del mondo criminale.
L’ambientazione storica, alla vigilia delle presidenziali del 2008, esacerba il concetto cardine del film, ossia la mercificazione e mistificazione dei valori della società, degenerati ormai in (fittizia) merce di scambio; e la scelta di adottare svariati registri visivi conferisce alla regia duttilità e mimetismo. Ottimamente scritto e diretto, Cogan è dunque tra le pellicole migliori dell’attuale stagione cinematografica, nonostante (o in virtù di?) un cinismo di fondo forse troppo programmatico.
Spiace dirlo, ma non si può affermare lo stesso di Savages (come di consueto, da noi tradotto impropriamente con Le belve), nuovo figlio di celluloide di Oliver Stone. E se lui non ha bisogno di presentazioni, ancor meno ne hanno i suoi film, la cui distribuzione è puntualmente accompagnata da una strombazzante campagna pubblicitaria.
Stone aveva dimostrato di godere di troppa attenzione già due anni fa, allorquando uscì nelle sale Wall Street – Il denaro non dorme mai, in cui persino Gordon Gekko s’era ridotto a gigioneggiare senza troppa convinzione. Savages è un po’ meglio, non fosse altro che a livello di sceneggiatura (dopotutto, a curarla è stato l’apprezzato Don Winslow, dal cui libro Stone ha tratto la pellicola) e forse anche di interpreti.
Nel cast all-star, infatti, quasi tutti sanno il fatto loro, a cominciare da Benicio del Toro (che fa il solito ruolo alla Benicio del Toro, ma egregiamente) ed escluso Taylor Kitsch, bisteccone la cui inespressività è solo in parte giustificata dal personaggio. Non manca l’alto tasso adrenalinico, così come il solito repertorio a base di violenza e sparatorie, con l’ovvio risultato di mantenere desta l’attenzione degli spettatori; eppure, la storia in sé risulta scarna, nel complesso innocua quanto inutile.
Le belve è dunque il solito film sul narcotraffico, penalizzato dalla caratterizzazione stereotipata dei protagonisti maschili (appena due cliché semoventi) e dall’evanescenza di quello femminile. Le atmosfere volutamente kitsch sono azzeccate, una nota di colore che tuttavia diventa urticante nel finale da spot pubblicitario. Meglio Blow.
Mariachiara Lobefaro