BIANCO&SPOSA, BIANCA TRAGNI A “LIBERA IN..FUSIONE”-foto
Magia “bianca”, appena patinata di antico, cucita a mano e con amore, solo in apparenza di semplice fattura. Romantici dettagli, dal bottoncino rivestito con la stessa seta al lezioso volant, dalle balze alle maniche ad ali di farfalla, dalla coroncina al fiocco di tulle tra i capelli… abiti da sposa resi ancor più preziosi dalle emozioni vissute indossandoli, dal tempo, dallo struggente desiderio di non dimenticare…
Nasce così, sull’emozione di un ricordo, di un sogno in divenire, “Bianco Legame”, evento organizzato il 14 novembre da “Libera in… fusione”, splendidamente coordinato dalla “regia” di Francesca Santoiemma, Rossana Prisciantelli e Angela Musci.
Accuratissima la scenografia, come si potrà notare dalle foto d’arte di Vito Netti, giovanissimo e promettente fotografo di Sammichele, e davvero di altissimo livello gli ospiti: Bianca Tragni e Vito Gallotta, accolti dall’assessore alla Cultura Piera De Giorgi.
Intenerisce vedere “in senso orario” narrarsi 60 anni di storia, raccontati da foto, da sorrisi, da speranze, per giungere agli abiti di Rossana Prisciantelli, seducenti e ricercati, raffinati ed eleganti. Un’aura di romanticismo li protegge dal pragmatismo dei tempi, dall’aridità dei sentimenti, conferendo al loro perlaceo candore, la purezza di un sogno.
Il più antico degli abiti, indossato nel 1951, venne cucito da Teodora Losito: corpetto accollato, maniche a sbuffo e ben cinque balze arricciate. Quanta tenerezza nel più semplice degli abiti, anch’esso anni ’50, il cui unico, insolito decoro è una piccola macchia, forse lasciata dal goloso assaggio di una giovane sposa! Tanti i ricordi legati agli oggetti da toilette, porta profumo, portacipria, spazzole, eleganti complementi delle camere da letto, rivestiti di intarsi di argento posati su preziosi ricami.
Una serata davvero magica in cui Bianca Tragni – in ritardo ma effervescente come non mai – dissemina spore di cultura attraverso la sua caleidoscopica narrazione.
E schegge di storia preziose quanto i cristalli degli abiti, investono il pubblico, visibilmente affascinato.
Nasce così, da una brillante conversazione, un vero saggio sulla storia dell’abito da sposa su cui si innesta il prezioso contributo di Vito Gallotta, docente presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Ateneo barese e preside del Corso di Laurea in Scienze e Tecnologie della Moda, istituito nel 2003 e “destituito” nel 2011 a seguito dei tagli finanziari imposti dalla legge Gelmini.
Piera De Giorgi saluta i presenti ringraziando “Libera In… fusione” per aver portato l’attenzione su uno dei momenti più importanti della vita, nel quale nasce il progetto di una famiglia.
“Le donne rendono grande il nostro paese – afferma l’assessore -, lo amano, lo rispettano… Una comunità si può sentire sicura nel momento in cui questi numi tutelari, dee della casa, si impegnano in prima persona per la città”.
La storia dell’abito da sposa
Bianca Tragni entra subito in argomento, ricorrendo all’incipit collodiano per introdurre la storia dell’abito da sposa.
“C’era una volta una bellissima regina, piccola, giovane, bella, non bellissima ma molto intelligente. Sale al trono a 18 anni, si innamora di un bel principe tedesco e lo sposa… è la regina Vittoria d’Inghilterra. E’ lei che ha inventato l’abito bianco, che non è un tòpos antico, ha solo 170 anni. Per il suo matrimonio sceglie un abito bianco, di seta con pizzi e merletti in tombolo, forse ricamati a Malta o a Honiton. Tra i diamanti della coroncina da cui scende il velo, fiori d’arancio ancor più preziosi perché sbocciati su una pianta rara a quella latitudine, coltivata nelle orangerie”.
L’abito da sposa da sempre è simbolo dello status sociale della sposa, espresso ai massimi livelli – qualunque ne sia il ceto -, dalla colorata e infiocchettata “pacchianella” di Pisticci ai broccati ricamati in oro e argento del ‘700.
“Filippa, figlia d’Enrico IV d’Inghilterra – continua la Tragni -, sposa nel 1406 Erik di Danimarca, indossa un abito di seta ed un mantello bianco bordato di ermellino, è bianco anche l’abito di Maria Stuarda nel 1500, il bianco era il colore del lutto”.
Il matrimonio di Vittoria nel 1841 coincide con la nascita delle prime fotografie – per l’occasione rievocate dal dagherrotipo prestato dal dottor Vito Santoiemma insieme ad altri arredi tratti dal suo Museo di Arte contadina -, per cui le immagini del suo abito girano per il mondo e colpiscono l’immaginario collettivo per scelta stilistica ed eleganza. In controtendenza con la tradizione la regina detta una nuova moda, secondo alcuni una vera e propria scelta socio-politica.
“Nell’antico Egitto la donna indossava una lunga gonna e una sopravveste trasparente, con il fazzoletto a strisce annodato al capo. In Grecia l’abito era in lino bianco, coperto da un mantello colorato. A Roma la tunica era bianca, cinta da un apotropaico “nodo di Ercole” in cui era stretto il cingulum per difendere la sposa dall’invidia e dal malocchio. Il nodo – oggi mutuato nel “taglio” del nastro annodato all’uscita di casa della sposa – poteva esser sciolto solo dallo sposo. L’abito era abbellito dal clamide e da sandali color zafferano. I capelli intrecciati in sei trecce, tante quante le vestali, venivano raccolti in una corona di gigli, simbolo di purezza, intrecciata con spighe di grano per augurare fertilità, rametti di rosmarino (emblema di virilità), mirto e timo (lunga vita). Il velarium flammeum veniva indossato fino al giorno successivo ed era simbolo del fuoco di Vesta, dea protettrice del focolare domestico”.
Bianca Lancia – sposa morganatica di Federico II – indossa un copricapo con velo che scosta per mostrare il volto alle popolane, ne parla Bianca Tragni nell’ultima fatica letteraria “Tutte le donne dell’imperatore”, libro in cui la scrittrice narra delle donne di Federico, “…mogli, madri, figlie… un universo femminile straordinario anche se triste”.
Nel Medioevo gli abiti da sposa sono in velluto, bordati di ermellino, nel Rinascimento sono appesantiti da decori con intrecci di seta, oro e argento e dai gioielli cuciti nel tessuto e sulle passamanerie.
Uno degli abiti passati alla storia è quello di Bona Sforza, duchessa di Bari e principessa di Polonia, indossato nel 1517. E’ di raso turchino ricamato con api d’oro del valore di quattromila ducati. Il ‘600, secolo della Controriforma, si distingue per il rigore ed in questo contesto l’abito è nero, abbellito dalla sola gorgiera decorata con merletti delle Fiandre, lavorati in un convento in cui vivevano suore, orfane e ragazze traviate.
Un altro merletto prezioso è quello ricamato a Palermo nel “Tiraz”, manifattura di ricamo portata in Sicilia dagli Arabi in cui si narra sia stato ricamato nel 1134 il mantello di re Ruggero, nonno di Federico II che a sua volta lo indossò nella cerimonia di investitura, oggi custodito nel museo imperiale di Vienna. Il ‘700 si caratterizza per il lusso strepitoso, nastri, sete, merletti… Con la rivoluzione napoleonica Josephine, donna di classe e amante del buon vino, inventa l’abito a vita alta con scollatura generosa, stile “impero”. Nel ‘900 i capelli si accorciano, una vezzosa cloche li valorizza, l’abito segue la moda ma resiste il bianco. La Chiesa cattolica proclama il dogma della Vergine Immacolata e il bianco diviene simbolo di verginità. Lo stesso riso lanciato sugli sposi per augurare fertilità è scelto perché bianco al posto di grano e chicchi di melograno.
Moda, design e impresa
La parola, quindi passa al professor Gallotta, il quale denuncia la chiusura del Corso di Laurea in Scienze e Tecnologie della Moda a causa della riduzione dei costi.
“Un corso – afferma Gallotta – che ha inteso dare una formazione di base interdisciplinare per una moderna azienda di moda che deve progettare, realizzare e collocare il suo prodotto in un mercato globale proprio in Puglia, dove queste realtà di impresa sono fiorenti. Nel complesso questo criterio ha comportato una forte sintesi fra quei momenti della formazione e dell’operatività dell’azienda di moda che sono in genere separati tra di loro, e fra corso di laurea e imprese. Quel che rimane è ciò che hanno costruito gli studenti, circa 400 laureati, tra cui Rossana Prisciantelli, talento creativo nutrito dalla padronanza delle tecniche. Non basta disegnare un bell’abito, occorre saperlo realizzare in azienda. Gli abiti di Rossana sono creazioni d’arte, la sua cifra stilistica è la semplicità e la raffinata naturalezza che non è data dalla sovrabbondanza. Rossana poteva aprire la sua boutique a Milano, ma ha scelto di investire con amore nella sua città pur avendo le carte in regola per conquistare mercati internazionali. Non dimentichiamo che Armani era un vetrinista della Rinascente e Valentino un ragazzo di sartoria. Chi si reca a Milano, Firenze o all’estero difficilmente torna a creare impresa in Puglia, e questo è indice di impoverimento sociale ed economico. Per competere a livello internazionale ci vuole formazione ad alto livello, occorre avere un marchio cui vanno collegate tre, quattro collezioni. Per questo si sta progettando un corso di formazione in tecniche di moda e design con riconoscimento della Regione”.
Emozionata Rossana Prisciantelli ringrazia il professor Gallotta per l’incoraggiamento e la fiducia accordata alla sua professionalità. La fashion designer ancor prima di terminare gli studi, ha avviato una piccola sartoria dove, per scelta, realizza solo abiti su misura, capi unici e personalizzati tra cui abiti da cerimonia e sposa. La cura nei dettagli è estrema, dall’acconciatura alle scarpe. Docente presso Istituti Professionali attraverso progetti PON, Rossana ha collaborato con Apulia Film Commission in un cortometraggio e scritto e diretto un suo Fashion Film diviso in puntate, che andrà on-line nei prossimi mesi.
“Credo che noi siamo “tutto” quello che siamo – dichiara Rossana -, fatti di pregi e difetti, di sogni e speranze, di passioni ed errori. Ci portiamo, nel cuore e sulla pelle il sunto del percorso e delle esperienze che continuamente ci formano. Ho sempre avuto la passione per l’arte, per tutto ciò che si può creare, plasmare, costruire ma di certo l’aver seguito un Corso di Laurea in Moda che spazia dalla storia del costume alla chimica, dalla letteratura al diritto, dalla sociologia alla merceologia, ha contribuito in modo fondamentale alla mia crescita. Perché ha ampliato i miei orizzonti e mi ha dato una visione a tutto tondo del sistema moda”.
L’incontro si è chiuso con un dolce dono ai relatori, quello delle sculture in pasta reale della cake designer Rossella Trapani.
Giovedì, 22 novembre, “Libera in… fusione” sarà nuovamente nel chiostro alle 19.30 per presentare il libro “Non siamo qui per caso” di Marco Cesati Cassin.